Beyond the hype

La sostenibilità e la sfida degli impianti sportivi

In che modo la qualità delle strutture sportive incide sulle scelte strategiche delle organizzazioni nel settore?

Non è sempre facile utilizzare la classica tripartizione ESG per decifrare le vicende sportive. Eppure, parlando di impianti si toccano tutti gli aspetti che devono essere presi in considerazione per una valutazione della propria sostenibilità. Ecco perché un tema che per molte realtà rappresenta un serio problema – soprattutto in Italia – è al contempo un formidabile strumento per ripensare la propria attività secondo le sfide del nostro tempo. Affrontare la tematica degli impianti ci accompagna verso un percorso di vera sostenibilità a 360°: dalla riduzione dell’impatto ambientale, ai benefici sociali in termini di prevenzione e inclusione, fino agli aspetti di governance quali la proprietà degli impianti stessi, che comportano conseguenze decisive sul quadro economico dello sport. Nel secondo numero di Beyond the Hype entriamo nel merito di ogni pilastro: 

AMBIENTE (ENVIRONMENT): DAL CAMPETTO SINTETICO AI GRANDI STADI 

Il grande amore che nutriamo nei confronti dello sport va necessariamente accompagnato dalla consapevolezza che ogni evento può avere un notevole impatto ambientale. Alcuni progetti di ricerca (come ad esempio Life Tackle, finanziato dall’UE) hanno messo in luce i criteri sui quali lavorare affinché ogni competizione sia veramente sostenibile: vanno ottimizzati i consumi energetici, ridotti e riciclati i rifiuti ed evitati gli sprechi di cibo, acqua e altre risorse naturali. 

Un punto molto critico è rappresentato dalle emissioni di CO2 causate dagli spostamenti di atleti e tifosi. Questo pone una scelta: costruire nuovi impianti fuori città, riducendo il consumo di suolo urbano, oppure ristrutturare quelli già esistenti, come hanno fatto Real Madrid e Tottenham, con il rischio di aumentare la pressione su aree già densamente urbanizzate.

Su questi temi si sono già da tempo attivate società e federazioni, con best practice come quella rappresentata dalla Premier League. Il massimo campionato di calcio inglese vanta splendidi stadi sempre più eco-friendly, con elevatissime percentuali di riciclo dei rifiuti e riduzione della plastica, e presenta opzioni vegane in tutti i servizi di ristorazione ai tifosi. 

I campi sintetici hanno i giorni contati

Si parla invece molto poco di un passaggio davvero rivoluzionario: il bando ai campi in erba sintetica che l’Unione Europea ha fissato per il 2030. La decisione è dovuta ai riempimenti in gomma, formati dai ben noti pallini dal diametro intorno ai 2,5 mm che servono ad assorbire gli urti, diminuire la scivolosità e facilitare i rimbalzi del pallone.  

Questi “intasi prestazionali”, ricavati dal riciclo di pneumatici esausti, rilasciano microplastiche, pericolose per la salute. I riempimenti di origine naturale si usano solo nel 5% dei terreni sintetici, che in Italia sono 2.954, il 22% circa dei 13.249 campi da calcio del paese. Alle conseguenze economiche (su cui torneremo a breve), si aggiungono quelle ambientali, legate allo smaltimento dei campi e degli pneumatici a fine vita, che oggi vengono principalmente riutilizzati come intaso per i manti sintetici: a ogni livello, occuparsi degli impianti è fondamentale, in una prospettiva di futuro sostenibile.

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SOCIALE: IL COSTO DI PATOLOGIE ED EMARGINAZIONE 

La mancanza di impianti idonei per lo sport amatoriale rappresenta per la collettività un costo indiretto, ma molto significativo. Lo ha calcolato il Rapporto Istisan 18/9, realizzato da Istituto Superiore di Sanità, Ministero della Salute e Coni: la scarsa attività fisica che caratterizza l’Italia, ben al di sotto della media europea, ci costa addirittura 2,1 miliardi di euro all’anno, pari al valore delle prestazioni sanitarie che potremmo evitare attraverso stili di vita più attivi.  

La situazione dei nostri impianti di base è fotografata dal censimento nazionale pubblicato da Sport e Salute nel 2021: delle 77.000 strutture esaminate, il 52% si trova al Nord, il 22% al Centro e il 26% al Sud, senza significative differenze rispetto all’analoga rilevazione svolta vent’anni prima.

La fragilità finisce in fuorigioco

Il Ministero dell’Istruzione aggiunge un dato grave: a livello nazionale solo 4 scuole su 10 sono dotate di palestre e al Sud la percentuale scende al 34%, con picchi drammatici in Sicilia (19%) e Calabria (17%). Non deve quindi stupire il fatto che oltre il 30% dei ragazzi meridionali nella fascia 6/17 anni sia sovrappeso, mentre il dato scende al 20% nelle regioni del Nord (dati Svimez-UISP 2021).  

I divari regionali e il rischio di emarginazione, già acuiti dalla pandemia, vengono ulteriormente aggravati dalle perduranti difficoltà nell’accesso allo sport. In particolare, UISP ha rilevato come un impianto sportivo su cinque in Italia non sia fruibile da persone con disabilità in qualità di praticanti e addirittura il 48,74% (quasi la metà) non li possa accogliere come spettatori. Un’inversione a U richiede certamente investimenti onerosi, ma il costo dell’inazione sarebbe certamente ben più gravoso, nel giro di pochi anni.

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GOVERNANCE: ALLA RICERCA DELLA SOSTENIBILITA’ ECONOMICA 

Il già citato bando ai campi sintetici peserà anche sulle tasche dei gestori. Ogni campo dovrà essere sostituito con costi intorno ai 300.000 euro, per un totale di ben 900 milioni. E dire che chi aveva puntato sul sintetico era mosso proprio dalla convenienza: il costo non secondario per costruire un campo (dai 40.000 ai 350.000 euro, anche in base alle dimensioni) viene ampiamente ripagato dal lungo ciclo di vita – intorno ai 10/15 anni – e dai bassi costi di manutenzione, ridotti alla metà rispetto all’erba naturale.  

La svolta UE mette in difficoltà sia chi ancora deve ammortizzare l’investimento, sia chi pensava di farne in futuro: salvo ripensamenti, fino al 2030 sarà ancora possibile installare campi sintetici, ma senza la possibilità di pianificare il rientro. Una vera e propria minaccia per chi pratica sport, non solo in Italia ma in tutta Europa. Nei Paesi del Nord, dove il clima più rigido complica la gestione dei campi in erba naturale, il problema rischia di essere persino più gravoso. 

Il costo della burocrazia

Gli investimenti nello sport italiano sono frenati anche dalla proprietà delle strutture. La survey condotta da UISP, Sport & Salute e Svimez su un campione di 1.029 gestori ha evidenziato come solo 17 di loro (1,65%) siano titolari degli impianti in questione, mentre il 63,17% è rappresentato da concessionari di strutture pubbliche, generalmente comunali.  

Il problema accomuna i campetti di periferia con l’élite dello sport europeo, ovvero il calcio professionistico. Gli stadi del campionato italiano (quasi tutti pubblici) hanno un’età media di 61 anni, contro i 35 degli stadi inglesi (quasi tutti privati), che ovviamente offrono una “match day experience” ben più appagante. Tale gap si rispecchia negli incassi da botteghino: ogni club di Premier nel 2022/23 ha incassato ben 50 milioni di euro, contro i 31 della Liga spagnola, i 30 della Bundesliga tedesca e gli appena 20 della nostra Serie A.

La situazione italiana è invece ben fotografata dalle parole di Giovanni Malagò: “Non siamo mai stati così forti nello sport e mai così in basso per quanto riguarda gli impianti”. A causare questa paradossale dicotomia, sempre secondo l’autorevole parere del Presidente del Coni, sono le difficoltà burocratiche che trasformano in “un calvario” la costruzione di uno stadio. Con il 44% degli impianti risalenti agli anni ‘70/’80 (e alcuni giunti al secolo di vita), è inevitabile essere inefficienti sul piano energetico. La vetustà delle strutture e gli aumenti dovuti alle crisi internazionali hanno portato le bollette di elettricità e gas a incidere fino al 45% dei costi fissi totali delle società. I problemi energetici ricollegano il pilastro economico a quello ambientale: lo stato attuale degli impianti è il vero indicatore dei progressi fatti sulla sostenibilità.

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Redazione